Di quella stanza niente più mi era familiare oramai, se non il
pavimento. La mobilia, ogni oggetto,
perfino i parati erano cambiati, ma il pavimento no, era sempre lo stesso. Negli
anni, avrei cambiato solo quello, non mi
era mai piaciuto. In quella stanza rivivevano i ricordi di una convivenza
forzata con mia sorella. Di quel che c’era allora, nell’accozzarsi di due caratteri diversi,
lontani per età e costantemente in competizione, non era stato conservato
niente da mia madre. La flebile luce che timidamente entrava attraverso la
piccola fessura della porta semichiusa, donava immagini di particolari nuovi che volevo
imprimere nella mia mente. In quell’ordine
e nella logica spietata dello scorrere degli anni, esaltava il disordine delle ultime cose da
raccogliere. Tutto ciò che avevo custodito in 35 anni sarebbe stato racchiuso
in una valigia, che non avrebbe dovuto pesar più di 25kg. Stavo lasciando tutto e di un appartamento
dove avevo trascorso da sola 7 anni, portavo con me l’essenziale. Avrei mai potuto chiedermi se stavo dimenticando
qualcosa?
Attorno a me tutto era cambiato, ma in quel silenzio di un’alba che
faceva fatica a venir fuori, sentivo i piccoli rumori rituali di mio padre in
cucina: l’acqua del rubinetto scorrere, il
cassetto delle posate. Il tovagliolo poggiato sul vassoio di acciaio, le quattro
tazzine bianche dai contorni spessi, il cucchiaino lungo che serviva a
raccogliere la schiuma di un caffè che saliva lentamente ad inondare la cavità che
lo accoglieva in un mare schiumoso di color nocciola. Mi ritrovavo adesso a
rivivere la quotidianità che avevo deciso volontariamente di lasciare a soli 20
anni. Il sussurro dei suoi movimenti e quel profumo di caffè davano pace
all’ansia che avevo del viaggio, il
pensiero di dover affrontare tutte quelle ore . Come resistere a 9 ore di volo?
L’idea mi terrorizzava, respiravo ed inspiravo lentamente per farmela passare.
Mio padre, un carattere adorabile, sensibile, generoso, paziente,
ironico, sarcastico, l’espressione nobile della vera Napoletaneità, di quella
raccontata cinicamente da Goethe, meravigliosamente nei film di Totò, nella poesia
di un Troisi malinconico. Non aveva avuto giustizia di una statura che non lo
premiava per le sue splendide caratteristiche.
Lasciandomi la tazzina di caffè bollente sulla scrivania mi chiedeva: “A
che ora sei pronta?” Sapevo che era in pena ed anche più in ansia di me per
quel viaggio che sarebbe durato 25 ore con tre aerei da prendere: Napoli - Monaco, Monaco – Washington , Washington - Columbus. “ Babbo non darmi fretta, rischio di
dimenticare qualcosa.” Sapevo di mentire
a me stessa, avrei non solo dimenticato qualcosa, dimenticavo tutto. Napoli,
l’Italia, i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, le mie attività, i
miei interessi, la piscina, il teatro, dovevano cadere nell’oblio, in quel momento i
sentimenti dovevano essere soffocati per dare spazio alla determinazione.
Oramai avevo preso la decisione di andarmene e non potevo credere in quel
momento di aver fatto la scelta sbagliata, non potevo farmi assalire
dall’amore, dall’affezione. In quell’attimo senti viva, reale, la decisione che
hai preso, senti che ti graffia e ti fa male. Ti rendi conto che ogni cosa ha un
suo prezzo, anche quando hai raggiunto finalmente la cosa per cui hai
combattuto da tempo, ti si presenta con il suo conto. Sono i miei amici ed i
miei colleghi a ricordarmi del sogno che avevo chiuso in un cassetto che
magicamente si è aperto 15 anni dopo.
Così in quel saluto lasciavo a Napoli anche i miei piccoli animaletti,
due gattini ed un cagnolino,. Erano parte di me, li avevo raccolti per strada e
portati a vivere con me. Erano stati trovati a poche settimane dalla nascita in
posti diversi ed in momenti diversi.
Erano stati
momentaneamente lasciati nell’appartamento dei nonni paterni. Mio zio, che lo
abitava da solo, era morto qualche mese prima, e la decisione fu presa per far
sì che avessero uno spazio adeguato per poterci vivere, così come erano stati
abituati. Con loro, anche tutti i pupazzetti, le copertine, le ceste e qualche
mio vestito per lasciargli il senso di familiarità, per dargli l’illusione di
non averli abbandonati. Quella decisione mi dilaniava, ma non potevo far
altrimenti. A Columbus, non avevo una meta, ero alla ricerca di una
sistemazione, forse di una stanza, forse di un appartamento, non sapevo ancora
cosa aspettarmi.
Così mio padre da
quel momento sarebbe passato un paio di volte al giorno a controllare che tutto
fosse apposto. Mi ha poi raccontato dopo un po’, di una anziana signora che lo
ha chiamato una sera a casa, una vicina di casa dei miei nonni.
La signora chiedeva
se mio zio fosse realmente morto. Mio padre meravigliato ed incuriosito, nella
comicità della cosa, ci scherzava su chiedendo come mai avesse fatto
quell’arguta domanda. Così, lei garbatamente gli ha detto: “ Giannino, ogni
mattina vedo le persiane alzarsi e la sera richiudersi, e io penso che ora là non
c’è nessuno, facite piglià a luce ai mobili? “
I miei genitori in
casa avevano accolto Shari, un meticcio tipo volpino, che iniziava la sua
convivenza con Tommy, il cane di casa,
un furbone dai colori dei Dalmata, ma che nulla aveva a che fare con loro.
Ed ecco, il momento
di chiudere la valigia, peli di gatti dappertutto. L’avevo lasciata aperta
giorni prima sul divano e la mia Titti ci dormiva dentro in una silente
disperata supplica di essere portata via con me. Mia madre nascosta tra le cose
da sistemare in casa, celava goffamente il dispiacere che stava provando, me ne
accorgevo dai movimenti, dai sospiri. Ed in quella empatia, in quel cordone
ombelicale mai spezzato, rintanava anche il mio dolore, consapevole del fatto
che solo qualche anno prima aveva sconfitto un carcinoma al seno. Stavo andando
negli Stati Uniti ad inseguire una speranza, la speranza di aver meritato il
lavoro di ricercatore, di poter concludere dignitosamente, in uno dei
laboratori più importanti al mondo, il
mio dottorato in farmacologia ed oncologia molecolare. Avevo bisogno di una
giustificazione per quello che sentivo allora come un voltare le spalle. Madre severa e dolce nelle sue paure, nelle
sue ansie. Da giovane era molto bella, per questo motivo mio nonno la tenne di
fatto segregata in casa. L’incontro con mio padre fu quasi una liberazione da
una prigione fatta di mura domestiche, uncinetti e ferri. Mi ha riempito la
valigia di cappellini, colorati, a strisce, con palline. “Lì fa molto freddo,
ne avrai bisogno”. Un ultimo sguardo attorno, un saluto a Shari e con le mani
sporche di saliva, ho preso la borsa del pc. Non ho avuto io la forza di
chiudere la porta di casa, ho sentito quel piccolo tonfo dietro di me, mentre
scendevo quell’unico piano che mi separava dall’auto. Era l’alba. L’odore acre
dei roghi che sistematicamente avvengono nella notte era nell’aria, in quel
momento anche quelli mi appartenevano. A poche centinaia di metri c’era Angelo
che mi aspettava, il mio compagno, è stato lui a farmi prendere con forza una
decisione che tardava ad arrivare, ma assolutamente necessaria. Ho conosciuto
Angelo dopo un anno che iniziava la sua battaglia ambientale, la sua guerra
contro i roghi. L’uomo de La Terra dei Fuochi, così conosciuto da quanti lo
seguivano in rete. Un ragazzo alto, autoritario, con una presenza scenica
naturale nel descrivere i fatti da protagonista nei documentari che lo hanno riguardato.
L’interesse era arrivato a lui da più parti, finanche da una radio australiana.
In questo viaggio
avevamo riposto il sogno di una sistemazione che ci portasse lontano dai
problemi di cui volontariamente ed involontariamente ci eravamo caricati. Una
zavorra che volevamo lasciare nel desiderio e nella speranza di poter
finalmente volare.
La strada era
libera, non riuscivo in auto a seguire i discorsi e le battute che faceva mio
padre. La mente era annebbiata dalla confusione di un arrivederci. Lo scorrere
della strada era una pellicola di un film visto e rivisto tante volte che
adesso andava a rallentatore.
In un attimo, la mia
valigia era in strada, fuori all’ingresso dell’ aereoporto. Un abbraccio fugace
e la sconfitta di mio padre di fronte alla sua debolezza.